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di Federica Orlandi

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La regolazione emotiva già nei primi mesi di vita dei bambini

Oggi voglio parlarvi di regolazione emotiva e di come questa sia già presente nei primi anni di vita del bambino.

Anche in questo caso un ruolo fondamentale per regolare questa attività è quella del caregiver!

Già a due mesi, il bambino è in grado di percepire le espressioni facciali prodotte dagli adulti.

Inoltre è in grado di attribuirvi un preciso stato emotivo.

Ma non solo, sono in grado di imitare le espressioni degli altri e regolare la proprio risposta emotiva sulla base di quella fornita dal genitore.

Il caregiver di riferimento a questo punto deve offrire il proprio aiuto per la modulazione delle emozioni.

Ma vediamo meglio cosa si intende per regolazione emotiva.

La regolazione emotiva: Lo Still Face (faccia a faccia)

Per spiegare questo concetto, vi devo parlare dello still face, una procedura che consiste in una osservazione strutturata con tre brevi episodi sequenziali.

Nel primo episodio di interazione faccia a faccia, la madre viene invitata a interagire con il bambino come fa di solito, utilizzando voce, gesti ed espressioni del volto.

Nel secondo episodio viene chiesto, invece, di stare immobile, in silenzio e con un’espressione del viso neutra.

Infine, il terzo episodio ripete il primo.

Queste ricerche hanno messo in luce che un bambino di 3-4 mesi è in grado di reagire alle modificazioni dell’espressività materna, modificando a sua volta le proprie modalità di comunicazione.

Se provate a farlo con i vostri bambini, nella maggior parte delle volte, di fronte al silenzio della madre, i bambini cercheranno di intensificare i loro sforzi comunicativi.

Magari con un sorriso o una risata, una vocalizzazione o semplicemente con l’intensità del loro sguardo.

Quando vedono che neanche a questi sforzi, la madre risponde, il bambino attua delle condotte di auto regolazione emotiva per modificare il proprio stato di disagio.

Il bambino inizierà quindi ad adottare anche lui una mimica inespressiva, manipolazione o stimolazione di parti del corpo, come una mano in bocca e rivolgendo lo sguardo da un’altra parte.

Questo provoca nei lattanti uno aumento dello stress e del disagio emotivo.

Da tutto questo, possiamo quindi notare come il ruolo di genitore, come regolatore esterno dello stato emotivo del bambino, sia fondamentale.

Quando la mamma non svolge la sua normale funzione regolatoria, i piccoli cercano di attivare degli schemi comportamentali così da poter gestire lo stress generato dalla non risposta del genitore.

Le strategie di regolazione emotiva nei bambini

Possiamo dire che il bambino mette in atto due possibili strategie di regolazione emotive: autodirette ed eterodirette.

Vediamo meglio cosa sono e come si manifestano.

Quelle autodirette sono delle strategie di regolazione emotiva che tendono a riportare il controllo del proprio stato emotivo agendo su se stessi.

Come abbiamo visto poco prima, tra queste rientrano il distoglimento dello sguardo o i comportamenti auto-consolatori come succhiare il pollice.

Tutte queste azioni hanno un effetto calmante sul bambino che è soggetto a una condizione di stress.

Le strategie regolatorie eterodirette sono finalizzate a ottenere il proprio stato emotivo, ma questa volta agendo sul genitore o sull’adulto.

In questa categoria rientrano le espressioni facciali, i tentativi di farsi prendere in braccio, il nervosismo.

Dovete però sapere che la distinzione tra queste due categorie non è poi così marcata.

La relazione diadica con la madre

La relazione con la madre è evidente fin dalle prime settimane di vita ma è all’età di 3-6 mesi che questa diventa più evidente grazie proprio alla regolazione emotiva sempre più articolata e complessa.

Il bambino inizia a essere attratto dagli oggetti e dall’ambiente circostante, richiamando così l’attenzione dell’adulto per essere supportato nella modulazione delle emozioni.

Questa regolazione emotiva rimane quella di riferimento almeno fino al periodo prescolare.

Durante il secondo anno di vita, si può vedere nei bambini anche delle strategie auto-regolatorie più mature, fondate sulle competenze cognitive, linguistiche e simboliche.

In questo caso il gioco simbolico diventa una delle strategie regolatorie più significative in assenza della madre.

Un attaccamento sicuro corrisponde alla sensibilità materna che crea delle competenze regolatorie e di sicurezza emotiva nel bambino.

Invece nel caso di un attaccamento insicuro, la sensibilità della madre è scarsa e ci sono pochi scambi tra loro.

Questo favorisce dei percorsi evolutivi inadeguati dello sviluppo e della competenza regolatoria.

Concludendo, possiamo affermare quindi che un clima famigliare che è caratterizzato dai conflitti e dalla scarsa sensibilità del caregiver potrebbe rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo della regolazione emotiva del bambino.

Portando anche questo a un forte disadattamento psicologico e alla scarsa sicurezza emotiva.

Al contrario, invece, un ambiente dove ci sono relazioni stabili tra i genitori, con affetto e attenzione alle richieste del bambino garantiscono una regolazione ottimale e prevengono i bambini da future psicopatologie.

Voi, vi siete ritrovate in questo tipo di caregiver con il vostro bambino?

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Il trattamento della fobia sociale

Vi ho parlato del tema dell’ansia sociale, come si verifica e quali sono i sintomi, oggi vorrei invece parlarvi del trattamento della fobia sociale.

La fobia sociale è un disturbo caratterizzato da un’intesa e continua paura di affrontare le situazioni sociali.

Qui si è esposti alla presenza e soprattutto al giudizio di altri, che fa sentire chi ne soffre incapace o inadeguato.

Molto spesso queste persone si trovano ridicole e di conseguenza entrano in uno stato d’ansia.

Uno dei trattamenti considerati più efficaci, secondo le linee guida internazionali, per curare la fobia sociale è la psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Questa, infatti, è finalizzata a ridurre la sintomatologia ansiosa, riducendo così anche l’isolamento sociale.

Inoltre, vi aiuta a promuovere un migliore funzionamento sociale e a lavorare sulla vostra persona.

Ecco perché è importante scegliere il giusto terapeuta che abbia una formazione in questo campo e non uno generico.

Il trattamento della fobia sociale nella psicoterapia cognitivo comportamentale si basa su:

 

  1. Ridurre la sintomatologia ansiosa, il timore del giudizio degli altri e il bisogno di riconoscimento
  2. Controllare il rimuginio anticipatorio sulle proprie prestazioni
  3. Ridurre il timore di mostrare ansia
  4. Ridurre i comportamenti di controllo dell’ansia e gli evitamenti delle situazioni sociali ansiogene.

Il percorso terapeutico cognitivo comportamentale è quindi la chiave vincente per sconfiggere questo disturbo.

 

 

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La fobia sociale a livello cognitivo, comportamentale ed emotivo

Nel mese scorso abbiamo parlato del disturbo d’ansia sociale, oggi voglio spiegarvi meglio la fobia sociale a livello cognitivo, comportamentale ed emotivo.

Il nucleo patologico della fobia sociale è rappresentato da una forte sensibilità verso il giudizio delle altre persone.

Il soggetto teme di essere osservato e di diventare, così, oggetto di scherno.

Inoltre, suppone che le proprie prestazioni lo portano ad esporsi a delle valutazioni negative.

Quindi, possiamo dire che a livello cognitivo è caratterizzato da una eccessiva criticità verso sé stesso.

Inoltre, tende a percepirsi come una persona debole, incompetente e molto spesso ridicolo, il contrario di come vede gli altri.

Il fobico sociale sul piano comportamentale adotta la condotta dell’evitamento e del rinvio.

Inoltre, nelle relazioni sociali utilizza un comportamento protettivo con una comunicazione assertiva e di sottomissione.

Per quanto riguarda, invece, il comportamento emotivo la persona affetta da questo disturbo vive un senso di agitazione e preoccupazione che aumenta con l’avvicinarsi dell’evento.

Nel momento della situazione fobica sopraggiungono ansia, vergogna e umiliazione.

Quando il fobico sociale si avvicina alle situazioni temuto, generalmente presenta anche un asia anticipatoria che può comparire diversi giorni prima dell’evento.

E’ prassi del fobico rimuginare a lungo sulla possibile situazione futura, portando così immagini e pensieri ad una concezione negativa.

Aumentando un livello di ansia che è disfunzionale e che porta a un circolo vizioso.

Per evitare le conseguenza temute, il soggetto, utilizza dei comportamenti protettivi.

Questi comportamenti sono delle strategie che il soggetto mette in atto, credendo di “controllare” i sintomi fobici in realtà producono maggiore ansia e interferiscono negativamente con la prestazione o le attività temute.

Questo vuol dire che questi comportamenti protettivi fanno apparire la persona ancora più goffa, impacciata o meno disponibile all’interazione.

Infine, possiamo dire che il fobico sociale oltre ai comportamenti appena elencati, attua un processo di esame a posteriori sulla situazione.

Molto spesso anche se questa è stata positiva, la valuta negativamente.

Ora, avete un quadro clinico della fobia sociale più ampio!

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Fobia sociale: cos’è e quali sono i sintomi

Oggi voglio parlarvi di fobia sociale o quello che viene chiamato anche disturbo d’ansia sociale.

Questo è considerato un disturbo psicologico che viene caratterizzato da un’intensa e persistente paura di affrontare le normali situazioni sociali.

Le persone quindi non riescono a esporsi alla presenza e al giudizio degli altri per la costante paura di apparire incapaci o ridicoli.

Quindi, in poche parole possiamo dire che si tratta di un disturbo d’ansia che viene causato dalla paura di essere giudicati negativamente in situazioni sociali o nello svolgimento delle proprie attività.

Ad esempio, questa fobia sociale potrebbe presentarsi mentre mangia o beve in pubblico, parla di fronte a un gruppo di persone, partecipa a una festa e molte altre azioni quotidiane.

Come dicevamo, quindi, il timore della fobia sociale è proprio quello di essere giudicati come delle persone ansiose, impacciate, stupide o inadeguate.

Questi sentimenti possono provocare nell’individuo un forte senso di disagio che porterebbe anche a palpitazioni, tremori, rossori, confusione e molto altro, provocando così degli attacchi di panico.

Fobia sociale: i sintomi e le cause

Il DSM 5, ossia il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali riporta che i sintomi della fobia sociale sono:

  • Marcata paura o ansia rispetto diverse situazioni sociali in cui l’individuo è esposto al possibile giudizio degli altri
  • L’individuo teme di mostrare i sintomi di ansia e che verranno valutati negativamente (umiliazione, imbarazzo)
  • Le situazioni sociali provocano quasi sempre paura o ansia
  • Le situazioni sociali vengono evitate o sopportate con intensa paura o ansia
  • La paura o ansia è sproporzionata alla minaccia reale rappresentata dalla situazione sociale e al contesto socio-culturale
  • La paura, l’ansia o l’evitare causano disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti del funzionamento

Detto questo possiamo dire che le cause che portano alla fobia sociale sono multifattoriali.

Per concludere dovete sapere che i fattori che possono influenzare lo sviluppo della fobia sociale ci sono quelli ambientali – psicologici, dei quali fanno parte il vissuto soggettivo attraverso le modalità di relazioni.

Queste vengono impresse dentro di noi fin dall’infanzia e dal nostro contesto di vita.

Tra i maggiori fattori di rischio di questo disturbo ci sono:

  • la storia familiare, qualcuno in famiglia che soffre o ha sofferto di questo disturbo;
  • i tratti della personalità come la timidezza;
  • esperienze di bullismo o derisione;
  • umiliazione;
  • criticismo compreso l’abuso sessuale.
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Federica OrlandiFobia sociale: cos’è e quali sono i sintomi
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La terapia cognitiva comportamentale per la dipendenza affettiva

Oggi vogliamo parlarvi di come la terapia cognitiva comportamentale possa aiutarvi con la dipendenza affettiva e con tutti i suoi sintomi.

Come abbiamo visto nel precedente articolo la guarigione dalle dipendenze, e quindi anche da quella affettiva, è un processo lungo e complesso che può richiedere diverso tempo.

Senza ombra di dubbio, possiamo dire che i presupposti fondamentali sono il riconoscimento di questa forma di dipendenza.

Inoltre, altri elementi fondamentali sono la presa di coscienza delle conseguenze alle quali ha portato o potrebbe portare e soprattutto la volontà di intraprendere un percorso di cambiamento.

Potete ben immaginare come tutto questo appena detto, richieda una grande dose di coraggio iniziale perché nella maggior parte dei casi questo porta a terminare la relazione disfunzionale e cominciare a gestire i sintomi dell’astinenza.

Le diverse fasi in cui si compone la terapia cognitivo comportamentale per la dipendenza affettiva:

  • Valutazione e formulazione del caso
  • Concettualizzazione del caso
  • Training sull’assertività
  • Accettazione e gestione delle emozioni dolorose

Valutazione e formulazione del caso

In questa prima fase, il terapeuta e il paziente ripercorrono la storia della relazione attuale e di quelle passate. Cercando di delineare, così, gli eventi che hanno condotto il paziente all’instaurarsi di credenze di non amabilità.

Inoltre, viene fatta un’ulteriore analisi della dipendenza affettiva usata come modalità per colmare e compensare queste credenze.

Vengono fissati gli obiettivi a breve, medio e lungo raggio e viene predisposta una rete di sostegno per il paziente.

Individuare una serie di persone fidate che possano sostenerlo e aiutarlo è fondamentale per la prima fase dell’astinenza.

Concettualizzazione del caso.

Una volta che si è arrivati alla consapevolezza del disturbo, alle dinamiche e ai circoli viziosi possiamo dire di aver riconosciuto i meccanismi della dipendenza da parte del paziente.

Questo è un passo fondamentale perché ci permette di capire come si possa gestire delle eventuali ricadute.

In questa fase della terapia cognitivo comportamentale ci si focalizza sulla ristrutturazione delle credenze disfunzionali che sono legate al concetto di amabilità e, ovviamente, sulla gestione delle emozioni.

In particolar modo, su quelle legate alla paura della solitudine, del rifiuto e dell’abbandono.

Il terapeuta, quindi, aiuta il suo paziente a modificare le aspettative che risultano irrealistiche sull’amore.

Training sull’assertività

In questa fase, viene presa in esame la capacità di riconoscere ed esprime le proprie emozione e i propri bisogni.

Si inizia a costruire un sé più solido e una migliore autostima.

La terapia prevede degli interventi diretti che sono volti ad aiutare il paziente a interrompere vecchi pattern d’azione.

Un esempio è quello di non intraprendere nuove relazioni prima che si siano riconosciuti i propri bisogni; stabilire dei confini personali e soprattutto di riconoscere i segnali di allarme nei comportamenti abusanti del partner.

Accettazione e gestione delle emozioni dolorose

Eccoci all’ultima fase della terapia cognitivo comportamentale, qui dopo che la relazione terapeutica è consolidata, bisogna concentrarsi maggiormente sull’area complessa della dipendenza affettiva.

Bisogna lavorare sui sentimenti come la colpa, il rimorso o la vergogna. Questo perché vengono fatti emergere all’interno del setting protetto della seduta e gradualmente accettati come parte di sé.

Le tecniche di Midfulness, in alcuni casi, possono essere integrati nella terapia cognitivo comportamentale perché sono di grande aiuto per gestire la consapevolezza delle proprie emozioni nella relazione, sia che questa sia attuale o passata.

Ora conoscete meglio questo argomento molto complesso e sapete soprattutto come la terapia cognitiva comportamentale vi possa aiutare.

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Federica OrlandiLa terapia cognitiva comportamentale per la dipendenza affettiva
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I sintomi della dipendenza affettiva

Dopo avervi parlato della dipendente affettivo tipico, vogliamo affrontare meglio il tema dei sintomi della dipendenza affettiva.

Dovete sapere che nelle prime fasi dell’innamoramento, si possono manifestare diversi sintomi che sono correlati alle dipendenze, sia quelli da sostanza che comportamentali come ad esempio:

  • euforia;
  • astinenza;
  • tolleranza;
  • dipendenza fisica e psicologica;
  • ricaduta.

L’amore potrebbe essere, quindi, paragonato a una sostanza d’abuso che come le altre sostanze crea una dipendenza.

Quando ci troviamo in una relazione, questa stimola le nostre aree celebrali che sono legate alla ricompensa, che è la stessa cosa che fanno le droghe.

Mentre, quando chiudiamo una relazione, i nostri sentimenti potrebbero essere ansia e depressione, come nell’uso delle droghe.

Queste risposte emotive, sia nel caso positivo che negativo, possiamo dire che si legano con le reazioni fisiche.

Tutto questo crea una potente spinta verso il voler instaurare o mantenere una determinata relazione affettiva.

La relazione, non è più solo amore, ma diventa l’obiettivo e la ricompensa che consentirà alla persona dipendente di ridurre la sua sofferenza e quindi di sentirsi meglio.

I sintomi della dipendenza affettiva sono molto simili a quelli delle dipendenze comportamentali

Questi sintomi e segni sono nello specifico:

  • Il piacere che deriva dall’oggetto della dipendenza.
  • La tolleranza, ossia quel bisogno costante di aumentare il tempo da trascorrere con il partner abbandonando o diminuendo, invece, il tempo per le attività in autonomia o i contatti con le altre persone.
  • Astinenza. Qui cominciano a comparire le emozioni negative che sono molto intense, come ad esempio: ansia, depressione o panico. Si manifestano quando il partner è lontano, sia fisicamente che emotivamente.
  • Perdita di controllo. Questo sintomo arriva quando si perde la capacità di riflettere lucidamente sulla propria situazione. Non si riescono più a controllare i propri comportamenti. Inoltre, vengono alternati momenti in cui si è lucidi e la persona dipendente prova sentimenti di rimorso e vergogna.

Tutti questi sintomi che vi ho appena elencato, nella vita quotidiana, si riflettono in una grande varietà di atteggiamenti e comportamenti del dipendente affettivo.

Questi sono solo alcuni casi:

  • Le emozioni del partner sono più importanti.
  • La propria stima di sé, deriva dall’approvazione del partner.
  • Il riuscire a prendere una decisione oppure una posizione è difficoltoso perché prova forti sensi di colpa.
  • La paura di un possibile abbandono è molto forte, molte volte attua dei comportamenti che hanno la funzione di evitare il rifiuto e la solitudine.
  • Diventa difficile e stressante riconoscere ed esprimere le proprie emozioni e i propri pensieri.
  • Il controllo del partner diventa l’impiego principale del tempo.
  • Le conseguenze negative che questa relazione produce vengono ignorate in tutti gli ambiti.

Ora conoscete quali sono i maggiori sintomi di questa dipendenza affettiva, nel prossimo articolo conoscerete come la terapia cognitivo – comportamentale viene utilizzata per guarire da questa dipendenza.

 

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Dipendente affettivo tipico: un modello clinico!

In questo articolo parleremo del dipendente affettivo tipico, dopo aver visto che cos’è la dipendenza affettiva patologica, nel mese scorso.

Un passaggio ulteriore che dobbiamo fare per capire questo modello clinico è quello di comprendere la mente del dipendente affettivo tipo (typical affective dependent, TAD).

Soprattutto, dobbiamo capire perché rimane in relazioni insoddisfacenti e pericolose.

Vi avevo già spiegato che la dipendenza affettiva patologica è una condizione relazionale, dove uno o entrambi i partner mettono in atto comportamenti abusivi, violenti o manipolatori.

Questo crea forte dolore per almeno uno dei partener.

Si sentono però incapaci di terminare la relazione e separarsi.

Solitamente, il dipendente affettivo tipico, dopo una separazione, un divorzio o un rifiuto, si sente estremamente ansioso e stressato.

Inoltre, possono rimuginare continuamente sulle possibili soluzioni per riconnettersi con il partner anche sottomettendosi, aggrappandosi così a una relazione disfunzionale.

Il dipendente affettivo psicologico sperimenta stati d’animo e sentimenti negativi quando sono lontani dai loro partner.

Dovete sapere che questa è considerata sia una condizione di stato, quindi temporanea, che di tratto, che si protrae nel tempo.

Secondo uno studio di ricerca condotto da un campione di vittime di violenza è emerso che la dipendenza affettiva psicologica è una condizione lentante.

Questa può essere innescata da un partner o da un ambiente violento.

Gli autori di questa ricerca hanno dimostrato che alcune persone in una relazione violenta, possono mostrare dei comportamenti disfunzionali, che risultano tipici di un individuo con un disturbo di personalità.

Tutti questi elementi negativi e disfunzionali sembrano scomparire quando la separazione del partner violento è stata completata e fuori dall’ambiente patologico.

Possiamo, quindi, dire che i partner violenti possono essere considerati un fattore scatenante della dipendenza affettiva patologica.

La peculiarità della dipendenza affettiva patologica è proprio l’impossibilità di porre fine alla relazione patologica.

Le diverse fasi del dipendente affettivo

Per quanto riguarda il dipendente affettivo tipico, possiamo dire che non è consapevole di essere in una relazione disfunzionale.

Molto spesso sono le persone vicine a lui, come i famigliari, a farglielo presente.

Può passare, poi nella seconda fase, da uno stato di rottura a uno successivo in cui rinveste nella relazione con la proposta di un figlio o di matrimonio.

Nella terza fase, il dipendente affettivo tipico è consapevole di essere rinchiuso in una relazione disfunzionale e di non riuscire a separarsi.

Possiamo concludere dicendo, che la dipendenza affettiva patologica può venire considerata come un antecedente psicologico essenziale e una possibile concausa alle violenze nelle relazioni intime.

A questo proposito è utile un intervento psicologico non solo per le vitte ma anche per gli autori di violenza.

 

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La dipendenza affettiva patologica: di cosa si tratta!

Oggi voglio affrontare un argomento molto importante: la dipendenza affettiva patologica.

Cercheremo di capire bene di cosa si tratta.

Molte volte non riusciamo a capire cosa c’è dietro la violenza nelle relazioni intime e la dipendenza affettiva patologica.

Pensiamo sempre cosa possa spingere due persone a stare insieme quando almeno uno/a di loro genera solo sofferenza.

Ecco, tutto questo è quello che vedremo oggi in questo articolo sulla dipendenza affettiva patologica.

La dipendenza affettiva patologica

Diversi ricercatori e psicologi hanno iniziato a spiegarsi la creazione e il mantenimento di relazioni intime violente come la conseguenza di una condizione.

Questa condizione viene chiamata dipendenza affettiva patologica.

Ma che cos’è la violenza nelle relazioni intime?

Potremmo dire che si ha quando un partner, o un ex, ha un comportamento che causa all’altro danni.

Questi danni possono essere fisici, sessuali o psicologici.

Spesso viene usato dall’abusante l’aggressione fisica, la coercizione sessuale, l’abuso psicologico ed emotivo i comportamenti di controllo.

Va precisato che la violenza nelle relazioni intime avviene tra coloro che hanno un età pari o superiore a 16 anni.

Questo avviene indipendentemente dal genere di appartenenza e dall’orientamento sessuale.

Quindi, sfatiamo subito il concetto di chi crede che la violenza nelle relazioni intime sia un fenomeno che colpisce solo le donne.

Troviamo diversi casi in cui l’abusante è una donna!

Quello che dobbiamo quindi chiederci dal punto di vista psicologico è:

Se la violenza nelle relazioni intime non è un problema del genere maschile, ma un problema relazionale, cosa spinge alcune persone a continuare queste relazioni disfunzionali anche quando la loro vita è a rischio?

Dovete sapere che molti studi hanno analizzato la violenza nelle relazioni intime a livello sociale ma non è mai stato inquadrato un modello clinico per questo fenomeno.

Quello che dovete quindi infine sapere è che la dipendenza affettiva patologica influisce negativamente sulla salute mentale e fisica delle persone coinvolte.

Il non riconoscere questa dipendenza o un cattivo intervento di un professionista possono portare a esiti irreversibili come ad esempio l’omicidio, il suicidio e il femminicidio.

Nel prossimo articolo vedremo il modello clinico del dipendente affettivo tipico.

 

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La tecnica del pomodoro: come gestire in modo efficace il proprio tempo

Oggi voglio parlarvi della tecnica del pomodoro, collegata alla gestione del tempo, perché insegna alle persona a focalizzarsi maggiormente sul compito che devono svolgere.

Molte volte diciamo: “il tempo è tiranno!” Lo consideriamo come un nemico e spesso ci scaturisce ansia.

Francesco Cirillo nel suo libro “la tecnica del pomodoro”, ci offre una soluzione semplice e immediata per imparare a gestire efficacemente il tempo.

Scopriamo meglio di che si tratta:

Origini della tecnica del pomodoro

La tecnica del pomodoro nasce agli inizi degli anni ’90 con l’esigenza di migliorare l’organizzazione e la concentrazione nello studio.

Il suo nome deriva dall’apparecchio utilizzato per l’organizzazione, ossia un timer da cucina a forma di pomodoro.

La tecnica del pomodoro è un metodo di time management e consiste nel suddividere i lavori in intervalli di 25 minuti, alternati da 5 minuti di pausa.

Questa tecnica viene quindi insegnata alle persone per focalizzarsi maggiormente sul compito, limitando il periodo di tempo.

Garantendo comunque delle interruzioni che servono a ripagare lo sforzo.

Questo metodo ispira alle idee del time boxing

Come dicevamo all’inizio, questo metodo ha l’obiettivo, oltre a gestire meglio il tempo, di contrastare la procrastinazione e il multitasking.

Entrambi, possono infatti compromettere la produttività del nostro tempo.

Quando gestite efficacemente il tempo, riuscite a fare molte più cose e in poco tempo!

Infatti, l’obiettivo della tecnica del pomodoro è proprio quello di sviluppare queste abitudini, garantendo così un miglioramento continuo.

Le fasi della tecnica del pomodoro

Il procedimento di questa tecnica possiamo dire si caratterizza in sei fasi:

  • Definire le attività da svolgere durante la giornata
  • Eliminare le potenziali fonti di distrazione (email, chat, social media e qualsiasi cosa non pertinente al compito da eseguire)
  • Impostare il timer per 25 minuti no-stop di puro lavoro
  • Concentrarsi sul compito da eseguire finché il timer non squilli (completando il record di un pomodoro)
  • Fare una pausa di 3-5 minuti
  • Al termine di 4 pomodori completati, fare una pausa dai 15 ai 30 minuti

Tecnica del pomodoro

Il ciclo di un intero pomodoro é fondamentale per la riuscita della tecnica.

Ricordate durante la pausa dei 5 minuti di staccare dal lavoro che stavate facendo, questo è veramente un elemento fondamentale.

Chiacchierate, bevete dell’acqua, fate stretching, rilassatevi ascoltando la musica, ad esempio.

Cercate di segnare il numero di pomodori che avete utilizzato per finire un lavoro, questo è uno stimolo per fare sempre meglio e in maniera più produttiva.

Il ticchettio che all’inizio via avrà infastidito diventerà un invito a concentrarsi e a continuare il lavoro.

Concludendo, la tecnica del pomodoro é stata applicata con successo in diversi ambiti, quindi é considerata un ottimo metodo per gestire il tempo.

Non vi resta che metterla in pratica!

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Gestire il tempo: come farlo al meglio!

Gestire il tempo non è mai semplice per alcune persone.

Oggi ve ne parlo in questo articolo, facendovi conoscere alcune strategie d’applicare per la gestione del tempo che possono esservi particolarmente utili.

Dovete, infatti, sapere che gestire il tempo in questo ultimo periodo e con i nostri stili di vita che sono cambiati è veramente molto importante.

Un esempio? Vi basti pensare allo smart working, nuova modalità di lavoro di molte aziende, che ha richiesto una nuova organizzazione del tempo.

Un altro esempio della gestione del tempo lo ritroviamo con i neo genitori o i genitori con figli piccoli che lavorano entrambi, le loro esigenze e i loro tempi vengono modificati.

Ma senza andare lontano, questo articolo su come gestire il tempo, può essere un utile strumento anche a quelle persone che ritengono di non riuscire mai a ritagliarsi uno spazio per sè.

Vediamo quindi come fare!

Gestire il tempo fissando delle priorità

Molte volte siamo presi dalla frenesia di fare tutto, che non riusciamo neanche a pensare un attimo a quali siano le cose davvero importanti per noi!

Siamo spesso “incastrati” in una routine o in delle aspettative che non corrispondono più alle nostre preferenze, trascurando così i cambiamenti delle nostre vite e del contesto in cui ci troviamo.

Quindi è fondamentale che le nostre priorità siano sempre aggiornate e laddove non lo siano, devono essere riviste.

Questo per dirvi, che se vi fermate un attimo, potete davvero concentrarvi sulle cose che sono davvero importanti per voi.

Fissate allora le vostre priorità e riaggiornatele se necessario.

Se riuscirete a farlo, potrete tenere maggiormente in equilibrio le vostre vite e gestire così efficacemente il vostro tempo.

Ora mettiamo in pratica questa teoria con un piccolo esercizio:

Questo esercizio vi permetterà di fissare le vostre priorità, quindi prendetevi almeno 10 minuti e mettetevi comodi.

Fate un bel respiro e prendete carta e penna, queste vi serviranno per stilare un elenco di cose importanti.

Dovrete scrivere tutte le cose che vi vengono in mente, cercando di essere il più possibili specifici.

Dopo di che, rileggete quello che avete scritto e chiedetevi se quanto avete scritto è importante per voi in questo preciso momento della vostra vita, assegnandoli un punteggio.

Avrete così una vostra classifica, ora quello che dovete fare è riprendere quelli che sono finiti agli ultimi posti e chiedervi ancora: “sono sicuro di volerle mantenere ancora?” “Le considero come prioritarie in questo momento nella mia vita?”

Questo esercizio vi aiuterà ad organizzare il vostro tempo avendo ben chiare le vostre priorità.

‍TO DO LIST:

Un altro strumento utile per gestire il tempo è la to do list, ossia la lista delle cose da fare.

Qui potete annotare tutte le attività da svolgere nella vostra giornata e nella vostra settimana.

  • una per il lavoro;
  • una per la famiglia;
  • una per le cose da fare;

‍Una volta che la lista è pronta, utilizzate la tecnica della “Matrice di Eisenhower“, utile proprio a stabilire le priorità delle cose da fare.

Troverete cosi delle cose:

  • urgenti ed importanti: da fare subito;
  • importanti ma non urgenti: si possono pianificare;
  • urgenti ma non importanti: potrebbero essere delegate ad altri;
  • né importanti né urgenti: potrebbero essere attività superflue e, quindi, eliminabili.

L’agenda è uno strumento fondamentale per la gestione del tempo

Un ottimo strumento per la programmazione delle vostre attività è l’agenda, perché ci consente di verificare in modo rapido, su quali aspetti concentrare i nostri eventi.

Inoltre, ci aiuta a capire se siamo davvero in grado di ritagliarci i nostri spazi e le nostre priorità.

In psicologia e in psicoterapia è possibile lavorare sulla gestione del tempo utilizzando proprio l’agenda come strumento efficace.

Quindi, mettete sempre in agenda del tempo per voi stessi e mettete in conto degli imprevisti.

Questo vi permetterà di farvi trovare preparati quando arriveranno e potrete così godere del tempo extra alle cose realmente importanti.

Pianificare e programmare può sembrare difficile ma è indispensabile, soprattutto per il vostro benessere psicofisico!

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