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di Federica Orlandi

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Il controllo nei disturbi alimentari

Il mese scorso abbiamo parlato del controllo, oggi, invece voglio parlarvi del controllo nei disturbi alimentari.

Più precisamente nei disturbi di anoressia e disturbo da alimentazione incontrollata.

Il primo è caratterizzato dal controllo e dalla restrizione alimentare estremamente rigida, mentre l’altro riguarda frequenti abbuffate e perdita di controllo.

L’elemento che accomuna entrambi questi disturbi è il controllo.

Secondo la teoria cognitiva comportamentale, i disturbi alimentari sono caratterizzati dalla restrizione alimentare, la quale dipende da due elementi.

Il primo riguarda le persone che tendono ad avere un controllo in vari ambiti della propria vita, arrivando a incanalare i propri tentativi di controllo anche nell’alimentazione.

Il secondo elemento, invece, è l’eccessiva valutazione del peso e della forma del corpo, ossia l’interiorizzazione ideale della magrezza.

Questi elementi in comune, hanno portato, Christian Fairburn e i suoi colleghi dell’Università di Oxford, ha sviluppare la teoria trasdiagnostica.

Qui, si collocano tutti i disturbi alimentari, in un’unica categoria.

La persona che ne soffre deve avere i seguenti elementi:

  • disturbo del comportamento alimentare o di controllo del peso per almeno tre mesi;
  • eccessiva valutazione del peso e della forma del peso e del controllo dell’alimentazione;
  • danni alla salute fisica e al funzionamento psicosociali

Nell’anoressia nervosa, caratterizzata da abbuffate, il soggetto sentendosi in colpa, cerca successivamente di restringere ulteriormente la sua alimentazione.

Questo circolo vizioso continua a ripetersi e i soggetti si trovano intrappolati tra l’eccessivo bisogno di controllo e la sua perdita.

Le diagnosi di bulimia nevosa e disturbo da alimentazione incontrollata si caratterizzano per le frequenti abbuffate, ossia la sensazione di perdere il controllo sull’atto del mangiare.

Conseguentemente a questo, l’individuo cercare di riprendere il controllo, con diete rigide ed estreme.

Come si può vedere le persone che sono affette da disturbo alimentare avranno una tendenza a reagire al discontrollo con un controllo estremo.

Il controllo o il troppo controllo può incidere e far nascere dei disturbi alimentari.

 

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Federica OrlandiIl controllo nei disturbi alimentari
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Il controllo: cosa è e come può diventare negativo

Oggi voglio parlarvi del controllo e come questo sia estremamente utile per tutti noi.

Tutti abbiamo un livello di controllo più o meno elevato, che può andare dal discontrollo emotivo /comportamentale a quello dell’iper-controllo.

Quello da fare è muoversi su questa linea in modo flessibile senza arrivare agli estremi.

Se pensate alla parola controllo, questa in ambito psicologico può avere diverse definizioni.

Ad esempio, si può usare per descrivere i processi che coordinano i pensieri e le azioni, controllo cognitivo.

Se vogliamo fare un salto nella storia di questo termine, possiamo farlo risalire allo psicologo statunitense James B. Rotter che lo usò per la prima volta in psicologia nel 1954.

Per la precisione cognò il termine locus of control, che definisce la capacità del soggetto di identificare le cause degli eventi che gli succedono.

Riuscendo a capire se siano dovuti in base ai propri comportamenti, relazioni e azioni o da agenti esterni alla sua volontà.

Chi è in possesso di un locus control interno sarà in grado di agire e modificare le situazioni e gli eventi, grazie a un controllo attivo della propria vita.

Chi invece crede che le cause degli eventi si verificano all’esterno, affronterà le situazioni in modo passivo.

Quindi, il controllo è da intendere come la capacità di inibire i comportamenti indesiderati: autocontrollo.

Questa è una grande qualità perché permette di concentrarsi sugli obiettivi a lungo termine, rinunciando a quelli a breve termine.

Vorrei quindi riportarvi un esperimento fatto dallo psicologo Walter Mischel, negli anni ’60, presso l’Università di Stanford, su questo tema: il Test del Mashmallow.

Su un campione di bambini in età prescolare si valutava la capacità di resistere a una gratificazione immediata, per riceverne una più grande in un secondo momento.

Il bambino solo in una stanza riceveva un mashmallow, che secondo le istruzioni non doveva mangiare, se ci fosse riuscito ne avrebbe ricevuto un altro.

Le soluzioni e le strategie che hanno adottato questi bambini sono state differenti: chi si allontanava, chi non lo guardava, chi cantava una canzone.

Una parte di questi bambini è stata poi testata, anni dopo, con lo Scholastic Aptitude Test (SAT), il test che viene usato per accedere ai college statunitensi.

I risultati che hanno ottenuto da bambini sembravano essere predittivi sulla tipologia di adulti che sarebbero diventati anche in termini di risultati scolastici e lavorativi.

Un maggior autocontrollo ha portato a livelli più alti di autostima e una maggiore capacità di tollerare la frustrazione in età adulta.

Ma se il controllo diventasse un problema?

Tutti possediamo il controllo, ci sono persone più impulsive e quelle più introverse e inibite, che tendono a controllare maggiormente l’espressione emotiva.

Ma l’ipercontrollo può portare gli individui a reagire agli eventi in modo rigido, non riuscendo a modificare il proprio comportamento con il cambiare delle condizioni ambientali esterne.

Quindi, questo è associato a una serie di conseguenze negative.

Le persone ipercontrollate, infatti, tenderanno a cercare ordine e a evitare condizioni rischiose, incerte o non pianificate.

Inoltre, tenderanno a non tollerare le critiche, avranno quindi un alto livello di perfezionismo e di pianificazione.

Tutto questo può avere effetti anche a livello sociale con delle scarse capacità empatiche e una difficoltà nel socializzare e costruire relazioni.

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Disturbo da ansia di malattia: il trattamento

Il mese scorso abbiamo iniziato a parlare del disturbo da ansia di malattia e come riconoscerlo.

Oggi vorrei soffermarmi invece a parlarvi del trattamento.

Dovete sapere che non ci sono molti studi su questo particolare trattamento del disturbo ma ce ne sono tantissimi invece sull’efficacia degli interventi per l’ipocondria.

Tutti questi riportano che la migliore terapia in questo caso è quella cognitivo-comportamentale, sia per la riuscita che per la stabilità nel tempo.

Ma come avviene questo trattamento da ansia di malattia:

Questo protocollo standardizzato comprende tre fasi e due interventi che vedremo ora nello specifico.

  • Assestment: questa è la fase iniziale in cui il terapeuta indaga i comportamenti e le cognizioni disfunzionali. Questi vengono attivati davanti a uno stimolo critico che porta alla formazione e al mantenimento del disturbo in questione.
  • Psicoeducazione del disturbo: questa è la seconda fase dove viene condiviso un modello cognitivo comportamentale della patologia.
  • Interventi cognitivi: passiamo dopo a degli interventi che servono a ristrutturare i pensieri disfunzionali che generano preoccupazione per la salute. Serve soprattutto per mettere un freno ai meccanismi cognitivi che mantengono il disturbo; ad esempio il rimugino.
  • Interventi comportamentali: questi servono a estinguere le condotte elencate sopra e a interrompere i circoli viziosi. Si basano sulla tecnica di esposizione e prevenzione della risposta.
  • Fase finale: questa è di prevenzione delle ricadute e follow up che serve a controllare la stabilità degli esiti nel tempo.

Posso dirvi che nella letteratura, basata su studi recenti, si è evidenziato che per il trattamento da ansia di malattia, interventi di mindfulness aiutano il paziente.

Attraverso questo percorso da uno psicologo cognitivo comportamentale si può superare il disturbo da ansia di malattia.

 

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Federica OrlandiDisturbo da ansia di malattia: il trattamento
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Disturbo d’ansia di malattia: di cosa si tratta e i fattori

Oggi voglio parlarvi del disturbo d’ansia di malattia, sapete cosa è?

Questo disturbo ha la caratteristica centrale di credere e avere paura di avere una grave malattia fisica.

Chi è affetto da questo disturbo interpreta in malo modo dei sintomi minori che possono essere magari una normale sensazione fisiologica o una disfunzione benigna.

Ognuno di noi, a volte è più preoccupato per la nostra salute, è normale presentare saltuariamente una preoccupazione di questo genere.

Sfocia però in disturbo d’ansia da malattia quando è persistente e va a compromettere la nostra vita sociale, lavorativa e interpersonale.

Disturbo d’ansia di malattia: le caratteristiche

Come abbiamo appena detto, la principale caratteristica di questo disturbo è quella di avere una grave malattia fisica che ci autodiagnostichiamo interpretando erroneamente dei sintomi fisici minori.

Questa costante preoccupazione rimane invariata anche dopo diversi controlli medici che escludono la malattia.

Quindi, come vediamo neanche la certezza di esami negativi e il parere di professionisti del settore riesce a placare quest’ansia che invece aumenta sempre di più.

Nel caso in cui sia veramente presente una condizione medica specifica, la persona affetta da questo disturbo manterrà comunque un’ansia spropositata ed eccessiva rispetto alla gravita della diagnosi.

Per attivarla basta che vengano a conoscenza di qualche persona che ne è affetta o sentirne parlare al telegiornale.

Fanno numerosi check fisici ma soprattutto a cercano sintomi della malattia utilizzando come strumento internet.

Come avrete capito questi comportamenti aumentano la credenza di avere quella determinata malattia.

Modalità in cui può manifestarsi questo disturbo:

Le principali modalità sono quelle di evitare contatti con operatori sanitari trascurando così la propria salute.

Sono spaventati dal fatto che possa svilupparsi o aggravarsi il pensiero di questa malattia.

Altre persone, invece, cercano rassicurazioni soprattutto in specialisti medici.

Non si rivolgono a degli psicologi perché credono di avere una malattia fisica.

Questo genera delle grandi frustrazioni e sofferenze in chi ne soffre ma anche alle persone che gli stanno accanto.

Infatti, vengono compromesse le normali attività della vita quotidiana.

Per vostra conoscenza, Il disturbo d’ansia di malattia è inserito nella sezione del disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati.

Nel prossimo articolo parleremo del trattamento.

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Federica OrlandiDisturbo d’ansia di malattia: di cosa si tratta e i fattori
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La regolazione emotiva già nei primi mesi di vita dei bambini

Oggi voglio parlarvi di regolazione emotiva e di come questa sia già presente nei primi anni di vita del bambino.

Anche in questo caso un ruolo fondamentale per regolare questa attività è quella del caregiver!

Già a due mesi, il bambino è in grado di percepire le espressioni facciali prodotte dagli adulti.

Inoltre è in grado di attribuirvi un preciso stato emotivo.

Ma non solo, sono in grado di imitare le espressioni degli altri e regolare la proprio risposta emotiva sulla base di quella fornita dal genitore.

Il caregiver di riferimento a questo punto deve offrire il proprio aiuto per la modulazione delle emozioni.

Ma vediamo meglio cosa si intende per regolazione emotiva.

La regolazione emotiva: Lo Still Face (faccia a faccia)

Per spiegare questo concetto, vi devo parlare dello still face, una procedura che consiste in una osservazione strutturata con tre brevi episodi sequenziali.

Nel primo episodio di interazione faccia a faccia, la madre viene invitata a interagire con il bambino come fa di solito, utilizzando voce, gesti ed espressioni del volto.

Nel secondo episodio viene chiesto, invece, di stare immobile, in silenzio e con un’espressione del viso neutra.

Infine, il terzo episodio ripete il primo.

Queste ricerche hanno messo in luce che un bambino di 3-4 mesi è in grado di reagire alle modificazioni dell’espressività materna, modificando a sua volta le proprie modalità di comunicazione.

Se provate a farlo con i vostri bambini, nella maggior parte delle volte, di fronte al silenzio della madre, i bambini cercheranno di intensificare i loro sforzi comunicativi.

Magari con un sorriso o una risata, una vocalizzazione o semplicemente con l’intensità del loro sguardo.

Quando vedono che neanche a questi sforzi, la madre risponde, il bambino attua delle condotte di auto regolazione emotiva per modificare il proprio stato di disagio.

Il bambino inizierà quindi ad adottare anche lui una mimica inespressiva, manipolazione o stimolazione di parti del corpo, come una mano in bocca e rivolgendo lo sguardo da un’altra parte.

Questo provoca nei lattanti uno aumento dello stress e del disagio emotivo.

Da tutto questo, possiamo quindi notare come il ruolo di genitore, come regolatore esterno dello stato emotivo del bambino, sia fondamentale.

Quando la mamma non svolge la sua normale funzione regolatoria, i piccoli cercano di attivare degli schemi comportamentali così da poter gestire lo stress generato dalla non risposta del genitore.

Le strategie di regolazione emotiva nei bambini

Possiamo dire che il bambino mette in atto due possibili strategie di regolazione emotive: autodirette ed eterodirette.

Vediamo meglio cosa sono e come si manifestano.

Quelle autodirette sono delle strategie di regolazione emotiva che tendono a riportare il controllo del proprio stato emotivo agendo su se stessi.

Come abbiamo visto poco prima, tra queste rientrano il distoglimento dello sguardo o i comportamenti auto-consolatori come succhiare il pollice.

Tutte queste azioni hanno un effetto calmante sul bambino che è soggetto a una condizione di stress.

Le strategie regolatorie eterodirette sono finalizzate a ottenere il proprio stato emotivo, ma questa volta agendo sul genitore o sull’adulto.

In questa categoria rientrano le espressioni facciali, i tentativi di farsi prendere in braccio, il nervosismo.

Dovete però sapere che la distinzione tra queste due categorie non è poi così marcata.

La relazione diadica con la madre

La relazione con la madre è evidente fin dalle prime settimane di vita ma è all’età di 3-6 mesi che questa diventa più evidente grazie proprio alla regolazione emotiva sempre più articolata e complessa.

Il bambino inizia a essere attratto dagli oggetti e dall’ambiente circostante, richiamando così l’attenzione dell’adulto per essere supportato nella modulazione delle emozioni.

Questa regolazione emotiva rimane quella di riferimento almeno fino al periodo prescolare.

Durante il secondo anno di vita, si può vedere nei bambini anche delle strategie auto-regolatorie più mature, fondate sulle competenze cognitive, linguistiche e simboliche.

In questo caso il gioco simbolico diventa una delle strategie regolatorie più significative in assenza della madre.

Un attaccamento sicuro corrisponde alla sensibilità materna che crea delle competenze regolatorie e di sicurezza emotiva nel bambino.

Invece nel caso di un attaccamento insicuro, la sensibilità della madre è scarsa e ci sono pochi scambi tra loro.

Questo favorisce dei percorsi evolutivi inadeguati dello sviluppo e della competenza regolatoria.

Concludendo, possiamo affermare quindi che un clima famigliare che è caratterizzato dai conflitti e dalla scarsa sensibilità del caregiver potrebbe rappresentare un fattore di rischio per lo sviluppo della regolazione emotiva del bambino.

Portando anche questo a un forte disadattamento psicologico e alla scarsa sicurezza emotiva.

Al contrario, invece, un ambiente dove ci sono relazioni stabili tra i genitori, con affetto e attenzione alle richieste del bambino garantiscono una regolazione ottimale e prevengono i bambini da future psicopatologie.

Voi, vi siete ritrovate in questo tipo di caregiver con il vostro bambino?

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Il trattamento della fobia sociale

Vi ho parlato del tema dell’ansia sociale, come si verifica e quali sono i sintomi, oggi vorrei invece parlarvi del trattamento della fobia sociale.

La fobia sociale è un disturbo caratterizzato da un’intesa e continua paura di affrontare le situazioni sociali.

Qui si è esposti alla presenza e soprattutto al giudizio di altri, che fa sentire chi ne soffre incapace o inadeguato.

Molto spesso queste persone si trovano ridicole e di conseguenza entrano in uno stato d’ansia.

Uno dei trattamenti considerati più efficaci, secondo le linee guida internazionali, per curare la fobia sociale è la psicoterapia cognitivo-comportamentale.

Questa, infatti, è finalizzata a ridurre la sintomatologia ansiosa, riducendo così anche l’isolamento sociale.

Inoltre, vi aiuta a promuovere un migliore funzionamento sociale e a lavorare sulla vostra persona.

Ecco perché è importante scegliere il giusto terapeuta che abbia una formazione in questo campo e non uno generico.

Il trattamento della fobia sociale nella psicoterapia cognitivo comportamentale si basa su:

 

  1. Ridurre la sintomatologia ansiosa, il timore del giudizio degli altri e il bisogno di riconoscimento
  2. Controllare il rimuginio anticipatorio sulle proprie prestazioni
  3. Ridurre il timore di mostrare ansia
  4. Ridurre i comportamenti di controllo dell’ansia e gli evitamenti delle situazioni sociali ansiogene.

Il percorso terapeutico cognitivo comportamentale è quindi la chiave vincente per sconfiggere questo disturbo.

 

 

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La fobia sociale a livello cognitivo, comportamentale ed emotivo

Nel mese scorso abbiamo parlato del disturbo d’ansia sociale, oggi voglio spiegarvi meglio la fobia sociale a livello cognitivo, comportamentale ed emotivo.

Il nucleo patologico della fobia sociale è rappresentato da una forte sensibilità verso il giudizio delle altre persone.

Il soggetto teme di essere osservato e di diventare, così, oggetto di scherno.

Inoltre, suppone che le proprie prestazioni lo portano ad esporsi a delle valutazioni negative.

Quindi, possiamo dire che a livello cognitivo è caratterizzato da una eccessiva criticità verso sé stesso.

Inoltre, tende a percepirsi come una persona debole, incompetente e molto spesso ridicolo, il contrario di come vede gli altri.

Il fobico sociale sul piano comportamentale adotta la condotta dell’evitamento e del rinvio.

Inoltre, nelle relazioni sociali utilizza un comportamento protettivo con una comunicazione assertiva e di sottomissione.

Per quanto riguarda, invece, il comportamento emotivo la persona affetta da questo disturbo vive un senso di agitazione e preoccupazione che aumenta con l’avvicinarsi dell’evento.

Nel momento della situazione fobica sopraggiungono ansia, vergogna e umiliazione.

Quando il fobico sociale si avvicina alle situazioni temuto, generalmente presenta anche un asia anticipatoria che può comparire diversi giorni prima dell’evento.

E’ prassi del fobico rimuginare a lungo sulla possibile situazione futura, portando così immagini e pensieri ad una concezione negativa.

Aumentando un livello di ansia che è disfunzionale e che porta a un circolo vizioso.

Per evitare le conseguenza temute, il soggetto, utilizza dei comportamenti protettivi.

Questi comportamenti sono delle strategie che il soggetto mette in atto, credendo di “controllare” i sintomi fobici in realtà producono maggiore ansia e interferiscono negativamente con la prestazione o le attività temute.

Questo vuol dire che questi comportamenti protettivi fanno apparire la persona ancora più goffa, impacciata o meno disponibile all’interazione.

Infine, possiamo dire che il fobico sociale oltre ai comportamenti appena elencati, attua un processo di esame a posteriori sulla situazione.

Molto spesso anche se questa è stata positiva, la valuta negativamente.

Ora, avete un quadro clinico della fobia sociale più ampio!

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Fobia sociale: cos’è e quali sono i sintomi

Oggi voglio parlarvi di fobia sociale o quello che viene chiamato anche disturbo d’ansia sociale.

Questo è considerato un disturbo psicologico che viene caratterizzato da un’intensa e persistente paura di affrontare le normali situazioni sociali.

Le persone quindi non riescono a esporsi alla presenza e al giudizio degli altri per la costante paura di apparire incapaci o ridicoli.

Quindi, in poche parole possiamo dire che si tratta di un disturbo d’ansia che viene causato dalla paura di essere giudicati negativamente in situazioni sociali o nello svolgimento delle proprie attività.

Ad esempio, questa fobia sociale potrebbe presentarsi mentre mangia o beve in pubblico, parla di fronte a un gruppo di persone, partecipa a una festa e molte altre azioni quotidiane.

Come dicevamo, quindi, il timore della fobia sociale è proprio quello di essere giudicati come delle persone ansiose, impacciate, stupide o inadeguate.

Questi sentimenti possono provocare nell’individuo un forte senso di disagio che porterebbe anche a palpitazioni, tremori, rossori, confusione e molto altro, provocando così degli attacchi di panico.

Fobia sociale: i sintomi e le cause

Il DSM 5, ossia il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali riporta che i sintomi della fobia sociale sono:

  • Marcata paura o ansia rispetto diverse situazioni sociali in cui l’individuo è esposto al possibile giudizio degli altri
  • L’individuo teme di mostrare i sintomi di ansia e che verranno valutati negativamente (umiliazione, imbarazzo)
  • Le situazioni sociali provocano quasi sempre paura o ansia
  • Le situazioni sociali vengono evitate o sopportate con intensa paura o ansia
  • La paura o ansia è sproporzionata alla minaccia reale rappresentata dalla situazione sociale e al contesto socio-culturale
  • La paura, l’ansia o l’evitare causano disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti del funzionamento

Detto questo possiamo dire che le cause che portano alla fobia sociale sono multifattoriali.

Per concludere dovete sapere che i fattori che possono influenzare lo sviluppo della fobia sociale ci sono quelli ambientali – psicologici, dei quali fanno parte il vissuto soggettivo attraverso le modalità di relazioni.

Queste vengono impresse dentro di noi fin dall’infanzia e dal nostro contesto di vita.

Tra i maggiori fattori di rischio di questo disturbo ci sono:

  • la storia familiare, qualcuno in famiglia che soffre o ha sofferto di questo disturbo;
  • i tratti della personalità come la timidezza;
  • esperienze di bullismo o derisione;
  • umiliazione;
  • criticismo compreso l’abuso sessuale.
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Federica OrlandiFobia sociale: cos’è e quali sono i sintomi
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La terapia cognitiva comportamentale per la dipendenza affettiva

Oggi vogliamo parlarvi di come la terapia cognitiva comportamentale possa aiutarvi con la dipendenza affettiva e con tutti i suoi sintomi.

Come abbiamo visto nel precedente articolo la guarigione dalle dipendenze, e quindi anche da quella affettiva, è un processo lungo e complesso che può richiedere diverso tempo.

Senza ombra di dubbio, possiamo dire che i presupposti fondamentali sono il riconoscimento di questa forma di dipendenza.

Inoltre, altri elementi fondamentali sono la presa di coscienza delle conseguenze alle quali ha portato o potrebbe portare e soprattutto la volontà di intraprendere un percorso di cambiamento.

Potete ben immaginare come tutto questo appena detto, richieda una grande dose di coraggio iniziale perché nella maggior parte dei casi questo porta a terminare la relazione disfunzionale e cominciare a gestire i sintomi dell’astinenza.

Le diverse fasi in cui si compone la terapia cognitivo comportamentale per la dipendenza affettiva:

  • Valutazione e formulazione del caso
  • Concettualizzazione del caso
  • Training sull’assertività
  • Accettazione e gestione delle emozioni dolorose

Valutazione e formulazione del caso

In questa prima fase, il terapeuta e il paziente ripercorrono la storia della relazione attuale e di quelle passate. Cercando di delineare, così, gli eventi che hanno condotto il paziente all’instaurarsi di credenze di non amabilità.

Inoltre, viene fatta un’ulteriore analisi della dipendenza affettiva usata come modalità per colmare e compensare queste credenze.

Vengono fissati gli obiettivi a breve, medio e lungo raggio e viene predisposta una rete di sostegno per il paziente.

Individuare una serie di persone fidate che possano sostenerlo e aiutarlo è fondamentale per la prima fase dell’astinenza.

Concettualizzazione del caso.

Una volta che si è arrivati alla consapevolezza del disturbo, alle dinamiche e ai circoli viziosi possiamo dire di aver riconosciuto i meccanismi della dipendenza da parte del paziente.

Questo è un passo fondamentale perché ci permette di capire come si possa gestire delle eventuali ricadute.

In questa fase della terapia cognitivo comportamentale ci si focalizza sulla ristrutturazione delle credenze disfunzionali che sono legate al concetto di amabilità e, ovviamente, sulla gestione delle emozioni.

In particolar modo, su quelle legate alla paura della solitudine, del rifiuto e dell’abbandono.

Il terapeuta, quindi, aiuta il suo paziente a modificare le aspettative che risultano irrealistiche sull’amore.

Training sull’assertività

In questa fase, viene presa in esame la capacità di riconoscere ed esprime le proprie emozione e i propri bisogni.

Si inizia a costruire un sé più solido e una migliore autostima.

La terapia prevede degli interventi diretti che sono volti ad aiutare il paziente a interrompere vecchi pattern d’azione.

Un esempio è quello di non intraprendere nuove relazioni prima che si siano riconosciuti i propri bisogni; stabilire dei confini personali e soprattutto di riconoscere i segnali di allarme nei comportamenti abusanti del partner.

Accettazione e gestione delle emozioni dolorose

Eccoci all’ultima fase della terapia cognitivo comportamentale, qui dopo che la relazione terapeutica è consolidata, bisogna concentrarsi maggiormente sull’area complessa della dipendenza affettiva.

Bisogna lavorare sui sentimenti come la colpa, il rimorso o la vergogna. Questo perché vengono fatti emergere all’interno del setting protetto della seduta e gradualmente accettati come parte di sé.

Le tecniche di Midfulness, in alcuni casi, possono essere integrati nella terapia cognitivo comportamentale perché sono di grande aiuto per gestire la consapevolezza delle proprie emozioni nella relazione, sia che questa sia attuale o passata.

Ora conoscete meglio questo argomento molto complesso e sapete soprattutto come la terapia cognitiva comportamentale vi possa aiutare.

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Federica OrlandiLa terapia cognitiva comportamentale per la dipendenza affettiva
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I sintomi della dipendenza affettiva

Dopo avervi parlato della dipendente affettivo tipico, vogliamo affrontare meglio il tema dei sintomi della dipendenza affettiva.

Dovete sapere che nelle prime fasi dell’innamoramento, si possono manifestare diversi sintomi che sono correlati alle dipendenze, sia quelli da sostanza che comportamentali come ad esempio:

  • euforia;
  • astinenza;
  • tolleranza;
  • dipendenza fisica e psicologica;
  • ricaduta.

L’amore potrebbe essere, quindi, paragonato a una sostanza d’abuso che come le altre sostanze crea una dipendenza.

Quando ci troviamo in una relazione, questa stimola le nostre aree celebrali che sono legate alla ricompensa, che è la stessa cosa che fanno le droghe.

Mentre, quando chiudiamo una relazione, i nostri sentimenti potrebbero essere ansia e depressione, come nell’uso delle droghe.

Queste risposte emotive, sia nel caso positivo che negativo, possiamo dire che si legano con le reazioni fisiche.

Tutto questo crea una potente spinta verso il voler instaurare o mantenere una determinata relazione affettiva.

La relazione, non è più solo amore, ma diventa l’obiettivo e la ricompensa che consentirà alla persona dipendente di ridurre la sua sofferenza e quindi di sentirsi meglio.

I sintomi della dipendenza affettiva sono molto simili a quelli delle dipendenze comportamentali

Questi sintomi e segni sono nello specifico:

  • Il piacere che deriva dall’oggetto della dipendenza.
  • La tolleranza, ossia quel bisogno costante di aumentare il tempo da trascorrere con il partner abbandonando o diminuendo, invece, il tempo per le attività in autonomia o i contatti con le altre persone.
  • Astinenza. Qui cominciano a comparire le emozioni negative che sono molto intense, come ad esempio: ansia, depressione o panico. Si manifestano quando il partner è lontano, sia fisicamente che emotivamente.
  • Perdita di controllo. Questo sintomo arriva quando si perde la capacità di riflettere lucidamente sulla propria situazione. Non si riescono più a controllare i propri comportamenti. Inoltre, vengono alternati momenti in cui si è lucidi e la persona dipendente prova sentimenti di rimorso e vergogna.

Tutti questi sintomi che vi ho appena elencato, nella vita quotidiana, si riflettono in una grande varietà di atteggiamenti e comportamenti del dipendente affettivo.

Questi sono solo alcuni casi:

  • Le emozioni del partner sono più importanti.
  • La propria stima di sé, deriva dall’approvazione del partner.
  • Il riuscire a prendere una decisione oppure una posizione è difficoltoso perché prova forti sensi di colpa.
  • La paura di un possibile abbandono è molto forte, molte volte attua dei comportamenti che hanno la funzione di evitare il rifiuto e la solitudine.
  • Diventa difficile e stressante riconoscere ed esprimere le proprie emozioni e i propri pensieri.
  • Il controllo del partner diventa l’impiego principale del tempo.
  • Le conseguenze negative che questa relazione produce vengono ignorate in tutti gli ambiti.

Ora conoscete quali sono i maggiori sintomi di questa dipendenza affettiva, nel prossimo articolo conoscerete come la terapia cognitivo – comportamentale viene utilizzata per guarire da questa dipendenza.

 

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